«Aiuto l’Italia perché è il paese dei miei figli, prima ancora che mio» – Amira, una donna italo-egiziana di circa quarant’anni, organizza ogni giorno pacchi alimentari da distribuire ai bisognosi a Rozzano, dove abita.
Da quando l’epidemia di SARS-COV-2 si è abbattuta sull’Italia, con ripercussioni gravi sulla Lombardia, molti membri della comunità egiziana hanno perso il lavoro, che spesso era precario, a cottimo, a giornata, o semplicemente in nero. Se prima dell’imposizione di misure di sicurezza per il contenimento del virus si prospettava la chiusura per 15.000 imprese, ci vorrà molto tempo per calcolare i danni che l’imprenditoria ha subito sia dai contagi che dalla chiusura forzata.
La comunità egiziana ne è stata particolarmente danneggiata. Infatti, gli egiziani si concentrano principalmente in Lombardia: nel 2018, secondo il Rapporto “La Comunità egiziana in Italia” del Ministero del Lavoro e delle Politiche Sociali, il 66,7% era residente in questa regione, e, in buona parte sono dediti all’ imprenditoria (il 44% si concentra nel settore del commercio e della ristorazione, il 26% nell’industria e il 21,6% nel settore edile), in linea con il motto scherzoso “o facciamo pizze o il cartongesso”.
Con una popolazione prevalentemente maschile adulta e con famiglie monoreddito, spesso i capifamiglia si sono anche ammalati e sono rimasti a casa, privando dell’unico mezzo di sostentamento le proprie famiglie. Quindi, con l’andare del tempo, la situazione si è aggravata, sia economicamente che sanitariamente.
Il contagio nella comunità egiziana
Calcolare i numeri del contagio è estremamente difficile. La Fondazione ISMU (Iniziative e Studi sulla Multietnicità) ha calcolato un tasso di affettività da SARS-COV-2 tra la popolazione egiziana in Lombardia dell’1,8%, dato che risulta particolarmente basso considerata la forte presenza di egiziani sul territorio. Tuttavia, questi numeri rispecchiano solo una piccola parte dei contagi effettivi, dal momento che il numero dei tamponi effettuati tra la popolazione straniera in Italia è decisamente inferiore rispetto alla media. L’accesso ai servizi sanitari rimane per molti difficoltoso o addirittura impossibile (per via dell’alto numero di irregolari), e molti sintomatici rimangono confinati a casa eludendo le statistiche ufficiali. In generale, comunque, la maggior parte dei cittadini egiziani residente in Lombardia ha seguito con cautela e attenzione le norme di sicurezza per evitare contagi.
L’esperienza delle donne
Mona, cinquant’anni sposata a un uomo molto più anziano di lei, teme per il marito, e impedisce contatti tra suo figlio ventenne, custode di un capannone di logistica, e il marito in pensione. Un misto di paura e rassegnato fatalismo guida le sue azioni: «se mi arriva il contagio non posso correre. Se Dio manda la malattia, manda anche la cura. Pensando così mi sento più rilassata». Il fatalismo arabo ha radici religiose e culturali, e nasce dalla concezione islamica che tutte le vicende terrene siano già state determinate, o “scritte”, maktub. Eppure, l’uomo ha la responsabilità di fare ciò che è in suo potere per migliorare le cose. Oltre al rispetto delle misure anti-contagio, la comunità egiziana si è subito mobilitata per dare conforto e aiuti alimentari a chi è stato più colpito dalla pandemia.
Amira, del Cairo, ha seguito il marito in Italia quando aveva 23 anni e ha fatto avanti e indietro dall’Egitto per i primi anni, per poi stabilirsi a Milano. Una traiettoria molto simile ad altre donne egiziane l’ha portata a studiare, concludendo le medie e le superiori in Italia. «Io volevo proprio integrarmi, non riuscivo a fare tante cose senza la lingua, mio marito doveva sempre tradurmi il pediatra». I suoi figli hanno perso il lavoro durante il lockdown perché lavoravano a chiamata. Questo ha fatto sì che si avvicinasse al gruppo di donne musulmane con cui studia nei corsi del comune e della moschea, e che l’hanno avvicinata a un gruppo femminile di mutuo soccorso che distribuisce generi alimentari, igienici e sanitari alle famiglie che hanno perso il lavoro e che ne fanno richiesta.
La rete di solidarietà
La mobilitazione si è saldata intorno alle moschee e alle associazioni islamiche, ma non è in alcun modo indirizzata esclusivamente ai musulmani: «abbiamo deciso di sostenere l’Uomo». L’esperienza più di successo è senz’altro “Giovani X il Bene, الخير X شباب”, un gruppo di giovani musulmani (ma non sono i “Giovani Musulmani”, ci tengono a sottolineare) che nasce vicino alla prima zona rossa di Italia, a Soresina, in provincia di Crema. Inizialmente si sono adoperati a tradurre le direttive governative e le misure sanitarie in arabo, per poi raccogliere e distribuire 13.000 mascherine.
Pian piano, grazie alle donazioni da parte di cittadini privati di generi alimentari, mai in denaro, sono arrivati a consegnare a 7000 famiglie in tutta Italia. Alcuni donatori particolarmente facoltosi, medi e grandi imprenditori musulmani, hanno donato dei capannoni in cui è possibile stoccare le derrate alimentari e non (pannolini, ecc…). I Giovani X il Bene hanno ottenuto una risonanza immediata tramite le dirette Facebook e un servizio di Striscia la Notizia che racconta le loro attività, attirando un numero ancora più cospicuo di donazioni, anche da molti non musulmani.
L’impegno degli Imam
Oltre all’associazione, che si muove al di fuori del circuito delle moschee, i principali luoghi di culto musulmani si sono dati da fare a consegnare alimenti a chi ha perso il lavoro o è in difficoltà. In via Padova la chiusura forzosa ha inizialmente rallentato le opere di bene, ma il periodo del Ramadan, che quest’anno è caduto verso la fine del lockdown, ha fatto sì che la zakat, l’elemosina pilastro della fede islamica, confluisse all’IBAN della Casa della Cultura Islamica che ha sede nella moschea.
L’imam Mahmud ha organizzato pacchi alimentari ai normali frequentatori della moschea e a chi li richiedeva. Un altro servizio essenziale a cui gli imam si sono adoperati fin da subito sono stati i funerali. In tempo di lockdown infatti sono stati officiati senza i parenti, ma l’imam si è sempre preoccupato che la tumulazione fosse seguita dalla salah, la preghiera rituale islamica, recandosi di persona nei cimiteri islamici. Purtroppo, la salah è solo una parte della cerimonia funebre islamica, che ha dovuto fare a meno della vestizione e dei lavaggi rituali.
La fine del lockdown: luoghi di culto e attività imprenditoriali
Il mese del Ramadan è stato difficile in tempi di SARS COV-2. Il presidente della Comunità Religiosa Islamica Italiana, Yahya Sergio Yahe Pallavicini, indica come difficoltà maggiore la chiusura dei luoghi di preghiera, dove si riuniscono i musulmani al tramonto per pregare insieme e fare comunità. La Mecca stessa ha chiuso. I minareti hanno diffuso il consiglio di pregare nelle proprie case invece di farlo all’esterno o in gruppo. La convivialità del momento di festa è stata tra le rinunce più sofferte.
Ad oggi, complice la fine del Ramadan e il festeggiamento dell’id al-fitr, giorno che segna la fine del mese sacro ai musulmani, molte attività lavorative sono riprese. Ristoranti, pizzerie, cantieri, mercati stanno per riaprire con le dovute misure di sicurezza o hanno già aperto, e molti egiziani hanno ripreso a lavorare.
I luoghi di culto in Italia hanno riaperto il 18 Maggio 2020, ma l’UCOII (Unione delle Comunità Islamiche d’Italia) ha deciso di posticipare l’apertura delle moschee al 25 Maggio, dopo l’id al-fitr, per evitare assembramenti dovuti ai festeggiamenti del Ramadan. La Mecca, invece, rimane chiusa, e i pellegrinaggi sospesi a tempo indeterminato.
In Italia la paura tra gli egiziani rimane, soprattutto per i membri più fragili della comunità, ovvero gli anziani.
«Non ho paura per me, se Dio mi manda la malattia non posso fare niente» torna il fatalismo di Mona «ma per mio marito, che è già malato. Faccio i pacchi a casa, non esco da settimane. Mio figlio lavora e fa la spesa, ma si spoglia e arriva al massimo alla lavatrice quando entra, si disinfetta».