
Da quando la pandemia di Covid-19 ha fatto la sua drammatica irruzione nelle nostre vite, e in particolare durante il lockdown, una molteplicità di voci, tanto all’interno quanto all’esterno della comunità accademica, ha espresso una più che giustificabile, e per certi condivisibile, ansia millenaristica. Dalle posizioni più pessimistiche (secondo cui la gestione dell’emergenza sarebbe diventata il terreno di sperimentazione di nuovi dispositivi totalitari) a quelle segnate dalla speranza di un possibile rinnovamento (e che auspicavano l’avvento di una maggiore attenzione all’ambiente o un ripensamento radicale dei nostri stili di vita e del sistema capitalista), in molti, seppur in termini ben diversi tra loro, sono stati inclini a ritenere che l’arrivo del Covid avrebbe segnato una cesura radicale. Queste posizioni sembrano essersi affievolite dopo la progressiva riapertura delle varie attività, pur continuando a riemergere in un dibattito pubblico che guarda con preoccupazione al rialzarsi della curva dei contagi.
L’impatto del Covid-19 sulle fasce più povere e precarie
I turni massacranti e lo stress fisico e psicologico a cui il personale sanitario e medico è stato sottoposto, anche a causa di decenni di tagli alla (o mancati investimenti sulla) sanità, la chiusura di scuole e asili che ha costretto molte coppie o famiglie monogenitoriali a districarsi tra la cura dei bambini e gli imperativi del cosiddetto “smart working”, gli spazi pubblici che si sono trasformati presto in scenari deserti dal retrogusto post-apocalittico, le conseguenze drammatiche che questa pandemia ha avuto e avrà nel prossimo futuro in termini economici e di disoccupazione, l’impossibilità di far visita ai propri cari e di seppellire i propri morti, l’applicazione di ordinanze tanto restrittive quanto sufficientemente vaghe da lasciare ampi spazi di arbitrio alle forze dell’ordine: sicuramente la pandemia e la conseguente quarantena hanno impattato in maniera radicale su tutte le sfere della nostra vita sociale (in particolare per la fasce più povere e precarie della popolazione), hanno reso evidente molte delle ineguaglianze sociali che contraddistinguono la nostra società e hanno riportato al centro dell’attenzione pubblica la categoria di “anziani” e la necessità di implementare misure radicali per “difenderli” dai rischi del virus.
Come antropologo impegnato da un paio di anni in una ricerca sui significati dell’anzianità per i membri delle diaspore eritrea e senegalese in Lombardia, la contraddizione che forse mi balzava più all’occhio durante il lockdown è stato il fatto che, nonostante le molteplici conseguenze economiche, sociali e politiche della pandemia e della quarantena, per molti dei miei interlocutori l’emergenza Covid aveva modificato molto poco l’ordinarietà delle loro vite quotidiane: il loro punto di vista si poneva talvolta in netto contrasto con le prese di posizione millenaristiche di cui sopra e rendeva conto di quanto quella che per molti è stata una condizione emergenziale per altri rappresentava la norma anche prima dell’arrivo del coronavirus.
Myriam: storia di una traiettoria di migrazione difficile
Uno dei punti che, infatti, emergeva più frequentemente dalle parole dei miei interlocutori era la sensazione che poco o nulla fosse cambiato (o sarebbe cambiato) nelle loro vite. Come mi disse sarcasticamente al telefono Myriam, un’anziana signora di settantacinque anni arrivata in Italia dall’Eritrea negli anni Settanta e che vive da sola in periferia di Milano: “In fondo, io sono stata in quarantena da quando sono arrivata in Italia. Per me non è cambiato poi molto”. La donna aveva lavorato per più di trenta anni come domestica per ricche famiglie dell’alta borghesia lombarda, presso cui, in molti casi, aveva anche abitato. Nel corso della sua carriera aveva subito condizioni lavorative che, dal suo punto di vista, le avevano precluso la possibilità di sposarsi e di avere figli. Agli occhi di altri membri della diaspora eritrea, il caso di Myriam rientrava in quelle traiettorie di migrazione per molti versi fallite, sia dal punto di vista economico sia da quello di realizzazione personale. Per molti anni aveva lavorato in nero, il suo salario era estremamente basso e gli spazi di libertà e tempo libero che le erano stati concessi estremamente limitati. Come mi disse: “Non ho fatto altro che lavorare, tutta la vita. Volevo spedire soldi a casa per aiutare i miei fratelli e i miei genitori, ma non guadagnavo abbastanza per inviare quello che avrei voluto. Rimpiango di non avere avuto più tempo per mettere su famiglia qui”. Arrivata alla pensione, Myriam si era ritrovata sola, con una pensione minima che a malapena le consentiva di pagare l’affitto e fare la spesa. Nel tempo i legami con il paese d’origine si erano allentati e, da quando aveva cominciato ad avere problemi di deambulazione circa cinque anni fa, si era anche trovata isolata rispetto ai luoghi di ritrovo classici della diaspora eritrea a Milano che, essendo prevalentemente concentrati in centro, diventavano per lei estremamente difficili da raggiungere. Quando incontrai Myriam la prima volta, circa un anno prima dell’inizio della pandemia, la donna viveva già in uno stato di profondo isolamento sociale. Le uniche persone che frequentava con una certa regolarità erano un paio di ex-domestiche eritree che una volta al mese passavano da casa sua e un’anziana vedova di origini italiane che viveva sola in un appartamento dello stesso palazzo. Le due donne si vedevano quotidianamente per bere un caffè, guardare la televisione o fare la spesa, abitudini che hanno continuato a coltivare anche durante l’emergenza Covid, nonostante i divieti imposti dalla quarantena: “Voglio ben vedere se i poliziotti vengono a controllare i nostri spostamenti sul pianerottolo”, mi disse Myriam ridendo al telefono. Il caso di Myriam, riletto alla luce della condizione di isolamento sociale imposta a tutta la popolazione italiana durante la pandemia, risultava paradigmatico di quanto l’isolamento sociale, che ora è stato esperito da molti a causa dell’emergenza sanitaria, sia parte dell’ordinarietà del vivere quotidiano di quegli anziani (d’origine italiana o straniera) che progressivamente hanno visto ridursi nel tempo il proprio capitale sociale.
Lavoratori invisibili diventano indispensabili: Mamadou
Anche per altri la pandemia ha cambiato ben poco dell’ordinarietà del vivere quotidiano. Mamadou, per esempio, è un sessantaduenne d’origine senegalese arrivato in Italia alla fine degli anni Ottanta e che lavora da due decenni in un mercato lombardo di frutta e verdura all’ingrosso, uno dei settori che ha continuato a restare aperto durante il lockdown. Come molti altri senegalesi della sua generazione, Mamadou ha passato i suoi primi anni in Italia lavorando come venditore ambulante. Successivamente è riuscito a trovare un posto di fabbrica che gli ha consentito prima di regolarizzarsi, poi di far arrivare sua moglie in Italia e avere due figli, che ora studiano all’università. Avendo iniziato a versare contributi relativamente tardi, Mamadou sapeva di dover lavorare ancora parecchi anni prima di potere godere di una pensione dignitosa e, quando ci incontrammo la prima volta, già si lamentava di quanto fosse sempre più duro per lui svolgere quel lavoro. “Ho sempre mal di schiena. Sposto cassette tutto il giorno. Non è un lavoro per uno della mia età. Ma devo farmi forza e resistere ancora qualche anno. Poi potrò avere la pensione e passare più tempo in Senegal. Questo è il mio sogno”. Come già faceva prima dell’inizio della pandemia, durante la quarantena Mamadou ha continuato a recarsi a lavorare alle due del mattino per finire intorno alle undici, tornare a casa dalla moglie in tempo per pranzo e risvegliarsi all’ora di cena per dirigersi a notte inoltrata verso una nuova “giornata” di lavoro. Obbligo di mascherina e guanti a parte, la vita lavorativa di Mamadou non è cambiata durante il lockdown. Rientrando anagraficamente nella fascia d’età considerata a rischio, ma dovendo continuare a lavorare per mettere da parte i contributi, Mamadou temeva di contrarre il virus e si chiedeva perché non ci fosse per lui la possibilità di restare a casa dal lavoro: “Certo bisogna che i supermercati abbiano la frutta e la verdura, ma perché non danno un permesso a quelli anziani come me di restare a casa come gli altri? Il fatto che io abbia una certa età vale meno del fatto che lavoro al mercato?” Mamadou invidiava chi poteva permettersi di stare a casa continuando a ricevere il proprio salario o la propria pensione, ma al tempo stesso nutriva il malcelato orgoglio di appartenere a una di quelle categorie di lavoratori considerate “indispensabili” durante il lockdown: “Speriamo che adesso che hanno ‘scoperto’ che siamo indispensabili, ci aumentino anche lo stipendio”, disse con il sarcasmo di chi non nutre false speranze.
Il migrante africano non è sempre giovane: il percorso storico delle diaspore
Nel loro sottolineare le continuità, piuttosto che le discontinuità, tra il “prima”, il “durante” e il “dopo” quarantena, Myriam e Mamadou mettevano in luce un aspetto per molti versi interessante: la pandemia e il conseguente lockdown non si traducevano per loro nell’emergere di uno “stato d’eccezione” che rischiava di essere “normalizzato” (o che avrebbe in qualche modo modificato in meglio o in peggio la società), ma rappresentavano una tragica normalità da loro già esperita e che, nell’estendersi ad altre categorie sociali di solito al riparo da questo tipo di dinamiche, era considerata da queste come “emergenza”. Passata la crisi, queste categorie sarebbero tornate “a rivedere il sole e le altre stelle” con la sensazione, per molti versi inebriante, di essere sopravvissute a una crisi sanitaria di dimensioni globali e di avere attraversato un momento storico “eccezionale”, mentre Myriam e Mamadou avrebbero continuato a vivere, rispettivamente, una condizione di profondo isolamento sociale e un ritmo lavorativo sfiancante che non erano state intaccati dall’eccezionalità dell’emergenza sanitaria.
In secondo luogo, le loro storie permettevano di mettere in luce quanto la presenza di anziani d’origine africana nel nostro Paese fosse sistematicamente taciuta nel dibattito pubblico. Generalmente, infatti quando i temi delle migrazioni e dell’anzianità sono messi in relazione tra loro, questo avviene dando per scontato l’immagine di una popolazione di origine italiana che invecchia e di giovani migranti in arrivo. Non che questa immagine sia di per sé falsa, ma rischia di nascondere la storicità delle diaspore africane in Italia e la presenza crescente di persone d’origine africana che in Italia sono invecchiate o stanno invecchiando. Questa sistematica rimozione è stata particolarmente evidente durante la pandemia. Nello scenario di caccia all’untore che si è creato prima, durante e dopo il lockdown, e che è diventato sport nazionale per individui sempre più soli e spaventati, i primi incriminati sono stati gli stranieri, la cui stessa presenza sul suolo italiano avrebbe messo a rischio gli anziani “autoctoni”. Dopo un primo periodo di accuse alle persone d’origine cinese (indipendentemente dal fatto che si fossero o meno recate in Cina nell’ultimo periodo), è stato poi il turno dei “giovani” (?) africani (che, secondo una vulgata piuttosto diffusa, continuavano “irresponsabilmente” a frequentare le panchine dei parchi pubblici o a “vagabondare” per la città durante la quarantena) e infine dei migranti di più recente arrivo, accusati di riportare il virus in Italia a lockdown terminato: lo “straniero” rappresentato sempre come potenziale “giovane untore” e mai come “anziano a rischio”. La pandemia è diventata dunque non solo l’ennesima occasione per ribadire posizioni xenofobe, ma anche per sistematicamente evitare di problematizzare le condizioni di isolamento e precarietà di quegli anziani delle diaspore che si sono trovati ad affrontare il Covid in condizioni socioeconomiche di gran lunga peggiori rispetto alle classi medie nazionali.
Marco Gardini – Università Milano Bicocca
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